Google: addio ai cookie di terze parti

Entro il 2022 Google non supporterà più i cookie di terze parti all’interno del suo browser Chrome.

Questi cookie vengono generalmente utilizzati  per tracciare la navigazione web degli utenti.

L’eliminazione sarà un processo graduale ma in grado di determinare grandi sconvolgimenti nell’industria pubblicitaria online.

Ma qual è il motivo di un’azione tanto impattante?

Questione di privacy?

Secondo quanto dichiarato da Google, lo scopo è quello di aumentare la privacy di Chrome.

Ma le cose stanno davvero in questo modo?

Per comprendere questo punto, occorre analizzare tutti gli aspetti della vicenda partendo dalla considerazione che, fino ad oggi, grazie al web, la capacità degli esperti di marketing di tracciare le abitudini degli utenti è divenuta un aspetto essenziale per le Aziende pubblicitarie e gli editori.

Questo è un modello di business che va avanti da oltre 20 anni e oggi rischia di sgretolarsi in seguito ai cambiamenti apportati da Google.

La maggior parte degli operatori del mondo pubblicitario non percepisce tali cambiamenti come un’azione a tutela della privacy bensì come un rafforzamento del potere di mercato di Google, che renderà Chrome un intermediario indispensabile per gli inserzionisti che hanno bisogno di dati per l’elaborazione e la verifica della propria attività inserzionistica.

Un nuovo sistema di profilazione

L’eliminazione dei cookie di terze parti, infatti, sarà sostituita dall’uso di sistemi di intelligenza artificiale in grado di profilare gli utenti sulla base dei loro interessi e delle loro abitudini direttamente attraverso il browser.

Questo progetto prende il nome  di Privacy Sandbox  poichè una raccolta dati così effettuata dovrebbe garantire modalità più rispettose della protezione dei dati personali degli interessati.

La Sandbox mira, infatti, a ricostruire la fiducia degli utenti nella digital economy, erosa dal massiccio utilizzo di cookie di terze parti operato da digital advertiser e da organizzazioni di ogni tipo.

In particolare, la nuova soluzione prospettata da Google si compone di diverse API che, lo ricordiamo, è l’acronimo utilizzato per Application Programming Interface, ovvero Interfaccia di programmazione delle applicazioni.

Si tratta, in definitiva di protocolli con i quali vengono realizzati e integrati software applicativi.

Tra i vari API di cui si compone Privacy Sandbox, quello più rilevante è, senza dubbio FLoC, Federated Learning of Cohorts. 

Un browser con FLoC abilitato agisce in questo modo:

raccoglie informazioni sulle abitudini di navigazione dell’utente e le utilizza per assegnare l’utente stesso a una “coorte” o gruppo, sfruttando tecnologie di intelligenza artificiale.

Gli utenti con abitudini di navigazione simili vengono raggruppati nella stessa coorte. 

Ulteriore aspetto di primaria rilevanza della Privacy Sandbox è che essa prevede la conservazione e l’analisi dei dati direttamente sul browser. 

A differenza dei cookie, quindi, ciò non avviene sui dispositivi degli utenti.

Quella che sembra essere un’azione di maggior tutela nei confronti della privacy dell’utente, come abbiamo accennato all’inizio di questo articolo, non convince affatto gli operatori del mercato pubblicitario.

E non sembrano essere gli unici. Alcuni dettagli appaiono ancora come troppo fumosi.

Alla luce di tutto ciò, alcune autorità antitrust si sono attivate per effettuare verifiche più approfondite soprattutto in merito all’aspetto anticoncorrenziale.